Sono nato a Vicenza in un freddo dicembre degli anni sessanta. Ho vissuto in un luogo incantevole, circondato dai campi con un fiume lento, silenzioso ma profondo, che ne solcava le carni. Esso segnava i confini tra la terra della fatica, delle braccia, dalla nuda e fredda via ferroviaria che lasciava spegnere lo sguardo dei bambini, nel suo infinito proseguire per luoghi lontani. Abitavo con la mia famiglia in una vecchia casa di campagna di precedente proprietà nobiliare; di quelle realtà nobili che nel dopoguerra hanno perso un po’ del loro smalto. Fu acquistata da una industria tessile che la usò per affittarla ai dipendenti, tra i quali mio padre.
L’appartamento che occupavo con i miei era quello in precedenza usato dal parroco di contrada, tant’è che nel salotto avevamo una nicchia dove in passato c’era una statuetta della Madonna e in quella stessa stanza, probabilmente, dicevano le messe.
Nella camera dove dormivo con mia sorella, nei giorni di pioggia strani e colorati affioramenti d’acqua mista a muffa scendevano dai muri perimetrali della stanza. Sembrava di abitare in un luogo magico: non era da tutti aver delle cascatine proprio a pochi centimetri dal naso.
Noi bambini non potevamo immaginare
Noi bambini non potevamo immaginare che era insalubre e che le ripetute bronchiti che ci aggredivano fossero causate da quelle bellissime e rigurgitanti cascatelle che la sera facevano fantastici riflessi esposte alla luce di un piccolo lampadario a gocce.
In quella antica dimora, confusa in una periferia della città con la sua profonda ma composta decadenza, c’era una grande soffitta che la sovrastava e come tutte le soffitte, racchiudeva memorie sopportando il triste peso della storia, quella che nessuno dovrebbe scordare. Vecchi mobili fatiscenti, reduci da pesanti traslochi sui carri, foto logore e ingiallite di parenti dimenticati anche dal cimitero, affascinanti raccolte involontarie di giornali, in attesa di una embrionale raccolta carta che, nei mitici 70, era visione futurista di pochi intellettuali. Le fredde giornate d’inverno respiravano nella loro brevità contrapponendosi alla lunga noia che trascinavo come tutti i ragazzini costretti tra le mura, ma avevo trovato un modo interessante per trascorre i pomeriggi. Quelle cataste di quotidiani che in qualche modo raccontavano la storia, aprivano nuovi scenari sconosciuti alla mia persona, non privi di crudeltà. Una storia sicuramente distorta, manipolata dai vari interessi del momento, ma comunque rimasta attuale in quelle pagine ingiallite, statica come le vecchie foto dell’armadio. Mi sedevo al centro delle “torri” e sollevando cumuli di polvere, ruotavo parole andate, ma ancora capaci di gridare pensieri. Ricordo gli articoli che iniziavano con “…Saigon 11 maggio 1965” o “…incursori sfidano comando vietcong: 50 perdite tra gli americani, ma il napalm apre un varco nella foresta…” parole che scandivano eventi con un ritmo studiato, calcolato al tavolino “letterario”; non lo comprendevo allora. Una “deflagrazione” mediatica, con obiettivi precisi: identificare in quel conflitto assurdo (che nel corso della storia ha coinvolto anche qualche nazione europea), i buoni e i cattivi, per una umanità sempre più cinica ed egocentrica presa dal boom economico alla ricerca di spazi e risorse per alimentare il grande altoforno. Nessun senso di colpa per i morti, tutti i morti. Rare erano le notizie che uscivano dal coro cercando di diffondere un barlume di verità.
Venivano immediatamente identificate e bollate come assurde prese di posizione di “ignoranti pacifisti”, che non comprendevano la pericolosità di alcuni popoli dalle “bolsceviche ideologie” politiche, lasciando le loro grida svanire nel grande rumore assordante della macchina da guerra occidentale.
Le cose non vengono mai a caso e capii più tardi quanto mi servì leggere quelle righe che tutt’oggi ritrovo nei quotidiani, descriventi luoghi di guerra diversi, ma con la stessa pietosa alterazione e falsità.
Un’impellente esigenza di revisionismo storico
In quegli anni settanta, molte erano le cose che movimentavano la vita nella reduce città decorata. L’escursione minima del tempo che divideva il presente dal 2° conflitto mondiale, lasciava ancora udire i pianti delle vittime; la vista di giovani disinformati era turbata da relitti umani ancora vaganti per le strade, in un continente rifatto dal lifting e in piena espansione economica dove già si faceva sentire un’impellente esigenza di revisionismo storico. Si cominciava a pensare di depositare in umide cantine tutto ciò che di giusto e sensato aveva permesso la risoluzione di un conflitto bestiale provocato dalla brutalità nazi-fascista. Soprattutto bisognava disinnescare la nostra Resistenza, dimenticare le donne alle finestre, le loro grandi lenzuola bianche sventolar segnali a giovani uomini dai forti ideali di libertà. Non immaginavano allora i partigiani, vittime della dittatura e involontari eroi della storia, di poter essere derisi da una parte del loro stesso popolo a distanza di pochi anni.
Vicenza, città decorata con medaglia d’oro per la resistenza, si trova ora a fare i conti con una società senza memoria. Una società appositamente costruita dal silenzio, dalla mancanza di informazione storica, quell’informazione che si dovrebbe raccontare nei banchi di scuola e che avrebbe permesso l’assorbimento sociale delle colpe e una corretta analisi critica.
Ma coloro che potevano contribuire alla diffusione della conoscenza critica donando ai giusti primavere libertarie, hanno preferito lasciar perdere, non raccontare certi eventi che resero possibile la sconfitta del fascismo. Non è poi così difficile comprenderne i motivi; sono ancora presenti con ruoli chiave nel Paese, soggetti che hanno costituito o fatto parte del regime. Sarebbe stato scomodo e pericoloso, lasciare camminare la storia nei cuori degli italiani, permettendo loro di difendersi dal rischio di nuove dittature.
Qualche illustre nome presente tra coloro che “contavano e contano”, avrebbe dovuto interrompere la sua carriera e sottoporsi ad un processo per crimini di guerra. In qualche modo filtrati dai “giudicatori” a Norimberga, hanno mantenuto la posizione mentre altre figure più criminali e difficilmente reintroducibili in circolazione, hanno trovato rifugio in paesi dell’America Latina con le necessarie coperture, “nazisti inclusi”.
Ma sono cose ormai scontate, che si sanno; così ci si sente dire quando riemergono dalla cenere. Restano comunque conosciute da pochi, perché nessuno, finora, indipendentemente dall’ideologia politica, ha espresso la necessità di far chiarezza soprattutto in questo momento di gran confusione. Sembra di prioritaria importanza disperdere le verità nel lento sciabordio del mare.
Spesso si dimentica, che solo per un caso la bomba atomica è finita sulla testa dei Giapponesi. La Germania, che non aveva terminato il progetto per motivi di tempo causati dalle “complicazioni belliche”, non aveva digerito l’armistizio dell’8 Settembre 1943 e l’avrebbe sicuramente donata “A NOI”, figli del littorio.
Si apre un chiaro percorso di quest’ultimo capitolo della storia se letto con una coscienza svincolata dai dogmi; si dice che la stessa sia sempre scritta dai vincitori e, in questo caso, si identificano chiaramente. L’impressione è che quello che realmente abbiamo ottenuto nel primo dopoguerra, sia stato solo una spolveratina ai vecchi mobili del palazzo prima di far rientrare i “veterani attori con un abito diverso”.
I veri libertari erano pochi, talmente pochi da non avere i numeri per una decente considerazione o forse erano solo operai, contadini, pochi intellettuali, persone semplici, che desideravano solo un mondo migliore senza la pretesa di occupare ruoli dominanti.
Oggi mi sento amareggiato per il sacrificio di migliaia di cittadini in parte vanificato e messo all’angolo della nostra pseudodemocrazia.
Quei giornali che tanto facevano navigare la mia mente, i miei pensieri, in un mondo ostile e poco rispettoso per i più deboli, aprivano piano le porte a ideali di pace, di giustizia, ispirati a risolvere con il dialogo e non con le armi le controversie dell’umanità. Pareva un percorso fattibile, ma allora ero solo un ragazzino e non immaginavo esistesse una così radicata e più diffusa cultura fondata sulla guerra.
Come nell’immaginario di tutti i bambini, le guerre non sono contemplate; solo negli adulti si trovano tali “virtù”.
Quell’odore di polvere, di stantio e naftalina
Molto da quel lontano 1970 è cambiato; il cammino intrapreso ha portato i suoi frutti ed oggi ne stiamo assaporando le conseguenze.
Quelle sgualcite pagine tracciavano strategicamente un futuro già stabilito e che oggi si manifesta nelle azioni politiche che consumano in fretta i flebili respiri di moribonde civiltà innocenti, colpevoli di non rientrare nel programma di salvataggio della macchina infernale.
Sembra che tutto sia stato inutile per questa umanità distratta, egoista ed egocentrica. Le guerre trascorse in Europa, dimenticate e poco studiate, non preservano i popoli dal rischio; tanto meno garantiscono questo Occidente impasticcato da un deformante potere e da una predominanza religiosa che nulla ha da spartire con la filosofia del Nazareno.
L’odore, quell’odore di polvere, di stantio e naftalina, che invadeva la grande volta del tetto con tutto il suo peso, la sua responsabilità nei confronti del tempo, ha lasciato in me il rimpianto del non aver ficcanasato dappertutto, di aver tralasciato molti di quei giornali, lasciandoli in pasto alle tarme senza sfogliarli, congedando gli stessi a un destino annunciato. In una antica leggenda albanese (la maledizione della cicala), si narra la sua morte non appena diventata madre. Tale maledizione si manifesta, per aver in tempi remoti tradito la stessa sua genitrice. L’informazione così muore nello stesso modo e per lo stesso motivo, dopo aver partorito mezze verità che non denunciano, svelano o cancellano l’arroganza di uomini capaci di ogni crimine per soddisfare il proprio interesse individuale. Lascio alla riflessione di tutti, queste righe che esprimono il mio pensiero e una piccola parte delle mie esperienze che mi sembrano riconfermare indirettamente alcune ipotesi di Guy Debord, quando prevedeva un incondizionato “dirottamento” delle masse attraverso i grandi mezzi di comunicazione, precipitando l’intera umanità nella “società dello spettacolo”.
Giordano Montanaro
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