lunedì 12 dicembre 2011

Mosca di notte




Il viaggio è uno dei modi più concreti per comprendere i limiti dell’uomo e le sue virtù.
Solo attraverso l’esperienza e le nuove conoscenze, si può osservare la nostra umanità con maggiore comprensione e spirito critico.

giordan  

giovedì 1 dicembre 2011

Africa


Africa
nei bauli si rovisteranno le merci
si scaverà più in fondo e si cercherà in ogni dove
dove nessuno mai
ha messo prima mano
e non ci sarà pietà
non ci sarà riscatto
solo un po’ di tregua prima
del nuovo cambio della guardia

giordan

domenica 20 novembre 2011

Czeslaw Milosz


Canzone sulla fine del mondo

Il giorno della fine del mondo
L’ape gira sul fiore del nasturzio,
il pescatore ripara la rete luccicante.
Nel mare saltano allegri delfini,
Giovani passeri si appoggiano alle grondaie
E il serpente ha la pelle dorata che ci si aspetta.

Il giorno della fine del mondo
Le donne vanno per i campi sotto l’ombrello,
L’ubriaco si addormenta sul ciglio dell’aiuola,
I fruttivendoli gridano in strada
E la barca dalla vela gialla si accosta all’isola,
Il suono del violino si prolunga nell’aria
E disserra la notte stellata.

E chi si aspettava folgori e lampi,
Rimane deluso.
E chi si aspettava segni e trombe di arcangeli,
Non crede che già stia avvenendo.
Finché il sole e la luna sono su in alto,
Finché il calabrone visita la rosa,
Finché nascono rosei bambini,
Nessuno crede che già stia avvenendo.

Solo un vecchietto canuto, che sarebbe un profeta,
Ma profeta non è, perché ha altro da fare,
Dice legando i pomodori:
Non ci sarà altra fine del mondo,
Non ci sarà altra fine del mondo.

Testo tratto dal libro “poesie” di Czeslaw Milosz (Biblioteca Adelphi 127)    

Nella presentazione di Iosif Brodskij, all’inizio del libro, all’inizio della sua riflessione,  spiccano le seguenti citazioni:
“ Non ho alcuna esitazione nell’affermare che Czeslaw Milosz è uno dei più grandi poeti del nostro tempo e forse il più grande”.
Sono termini immensi che, a volte, possono essere strumento della mercificazione.
Czeslaw, non corre il rischio, è certo. Non corre il rischio di perdersi nei dedali dell’ordinario perché la sua poesia non è: “poesia da scrittoio”. Non è poesia “progettata” con una serie di materiali “laterizio -letterari”,che solo attraverso lo studio della letteratura, lo studioso apprende. I suoi versi nascono dallo scavo, dalla trincea o meglio, dallo scavo delle fondamenta vitali.
Sono infrastrutture di esperienze che  scolpiscono la pelle di chi vive una vita intensamente.


Nei ricordi di bambino, ho una traccia rimasta nitida: sentivo dire più o meno una volta all’anno, che stava per sopraggiungere la fine del mondo.
Allora, correvo da mio padre per chiedere spiegazioni e lui sorridendo, mi passava la mano tra i capelli e mi diceva di non pensarci e di tornare a giocare.
Però ero insistente e lo perseguitavo con la mia paura così, la sera durante la cena, riproponevo il quesito.
Una volta mi disse: “ la fine del mondo, è l’ape che muore dopo il suo ciclo vitale, l’albero che secca per la pioggia che non cade. La fine del mondo, è un vecchio che spegne il suo giorno piego tra le ossa consumate, è un giovane che cade al fronte. La fine del mondo, è anche il fiore che cede lo stelo al vento, la mosca che rimane schiacciata tra il tavolo e la mano nervosa di un uomo. La fine del mondo, è un perseguitato che cade sotto tortura  o una madre che spira nel parto. La fine del mondo, avviene ogni giorno e ciò che rattrista è che pochi lo notano. Anche l’indifferenza può essere la fine del mondo”

Oggi, leggendo Milosz, ho scoperto questa poesia. Inevitabile la connessione con il ricordo di mio padre.
Anche per lui potrei usare le stesse parole immense, ma non credo sia corretto. Esse dirigono il lampo ad  una piccola porzione di vita umana. Una porzione, purtroppo, che non  racconta il valore di una vita intera.

P.S.: mio padre non conosceva Czeslaw Milosz   

giordan

  

martedì 8 novembre 2011

Sylvia Plath



Sylvia Plath, nasce a Boston il 27 ottobre 1932. La sua poesia è carica di elementi naturali e “naviga” in un moto quasi perpetuo, tra i respiri della vita e le staticità della morte.

Questo è quanto leggendo alcune sue poesie, ho percepito. Non vuole essere questo mio sentire una traccia uniformabile a chiunque naturalmente. Come sempre scrivo, la poesia è: un linguaggio universale che comunica nella lingua madre e che sopravvive tra le pieghe di altre lingue, lasciando al vento diverse essenze. Alcune impercettibili, ma presenti.

La sua universalità la rende incatturabile, indefinibile, inclassificabile o … visibile o invisibile
In relazione alla sensibilità del lettore.     

Sylvia, muore suicida all’età di trent’anni nel febbraio del 1963.
Si è scritto molto sulla sua “diversità mentale”.
È tutto pieno, senza spazio di salvezza.
Sylvia è: una traccia che testimonia in parte, la nostra impietosa società.
Sylvia è: una vittima di se stessa.
Sylvia è: stata una donna con un cuore, un cervello, un amore …
Sylvia è: noi, lei, le sconfitte e le vittorie di un mondo sempre più umano nella sua disumanità.
Giordan

The beast

He was bullman earlier,
King of the dish, my lucky animal.
Breathing was easy in his airy holding.
The sun sat in his armpit.
Nothing went moldy. The little invisibles
Waited on him hand and foot.
The blue sisters sent me to another school.
Monkey lived under the dunce cap.
He kept blowing me kisses.
I hardly knew him.

He won’t be got rid of:
Mumblepaws, teary and sorry.
Fido Littlesoul, the bowel’s familiar.
A dustbin’s enough for him.
The dark’s his bone.
Call him any name, he’ll come to it.

Mud-sump, happy sty-face.
I’ve married a cupboard of rubbish.
I bed in a fish puddle.
Down here the sky is always falling.
Hogwallow’s at the window.
The star bugs won’t save me this month.
I housekeep in Time’s gut-end
Among emmets and mollusks,
Duchess of Nothing,
Hairtusk’s bride.



La bestia

Prima lui era uomo-toro,
Re del piatto, mio animale fortunato.
Nel suo arioso dominio respirare era facile.
Il sole dimorava nelle sue ascelle.
Niente ammuffiva. I piccoli esseri invisibili
Erano a sua completa disposizione.
Le suore azzurre mi mandarono in un’altra scuola.
La scimmia viveva sotto un berretto d’asino.
Lui continuava a mandarmi baci.
Io lo conoscevo appena.

Lui non si fa scacciare:
Zampettino, mugolante e dispiaciuto,
Fido Coccolino, intimo delle viscere.
La pattumiera gli è sufficiente.
Il buio è il suo osso.
Offendilo come vuoi, lui risponderà.

Pozza di fango,felice faccia-da-truogolo.
Ho sposato un armadio di immondizia.
Mi metto a letto in una pozzanghera di pesci.
Quaggiù il cielo precipita sempre.
Alla finestra c’è il porcile.
Questo mese gli insetti-stella non  mi salveranno.
Casalinga nelle budella del Tempo,
Fra formiche e molluschi,
Duchessa del Nulla,
Sposa di Zanna-pelosa.

(autore Sylvia Plath)
  
(poesia tratta da: SYLVIA PLATH: LE MUSA INQUIETANTI)
Raccolta: “i poeti allo specchio” Arnoldo Mondadori Editore ed.1985

mercoledì 2 novembre 2011

Léopold Sédar Senghor

Léopold Sédar Senghor
Léopold Sédar Senghor, nasce a Joal (Senegal) il 9 ottobre 1906 e muore a Verson (Bassa Normandia in Francia), il 20 dicembre del 2001.
Una figura importante per il suo paese natale, in quanto poeta, politico ed infine, primo presidente del Senegal dal 1960 (post liberazione dal colonialismo francese) al 1980.
Di madre lingua francese, condivise pensieri ed esperienze con Aimé Césaire (poeta, scrittore e politico francese nato in Martinica), Vate e ideologo della Négritude. Senghor, Primo membro africano della Accadémie française, è stato il fondatore del partito politico “Blocco Democratico senegalese” nella sua terra d’origine.
Tutt’oggi, è considerato una delle figure intellettuali più importanti dell’Africa: grazie alle sue opere, si è data maggiore valenza alla cultura africana, sia nel grande continente che nel mondo intero.

E il disco infuocato del sole
E il disco infuocato del sole declina nel mare vermiglio.
Ai confini della foresta e dell’abisso, mi perdo nel dedalo del sentiero.
L’odore mi insegue forte  altero, a pungere le mie narici
Deliziosamente. Mi insegue e tu mi insegui, mio doppio.
Il sole si immerge nell’angoscia
In una messe di luci, in un’esultanza di colori e di grida irose.
Un piroga sottile come un ago nella ferma intensità del mare,
uno che rema e il suo doppio.
Sanguinano le rocce di Capo Nase, quando lontano si accende il faro delle mamelles.
Al pensiero di te, così mi trafigge la malinconia.
Penso a te quando cammino e quando nuoto,
seduto o in piedi, penso a te mattino e sera,
la notte quando piango e sì, anche quando sono felice
quando parlo e mi parlo e quando taccio
nelle mie gioie e nelle mie pene. Quando penso e non penso,
cara penso a te.  

(poesia tratta dal libro: Senghor – Poesie dell’Africa) Bandecchi & Vivaldi editori

Scegliere una poesia da un libro, non è cosa facile. Innumerevoli sono le dinamiche che, alla fine, lasciano l’irrazionalità a decidere. Dico irrazionalità, perché in poesia non è sinonimo di incoscienza, ma vela spiegata al vento tra - versi di-versi.  Ho pubblicato questo testo di Senghor, perché stacca il pensiero costante del poeta dalla guerra.  Una guerra sanguinaria consumata in Senegal contro il dominio francese. Un testo che, sembra, inciampi ad ogni espressione, cada e si rialzi poi, spinto dal desiderio pulsante, di condividere il ritmo cardiaco con l’Africa. Un’Africa dagli scenari impetuosi e perciò, “aritmico”.  Versi che parlano concretamente della “calda madre” e che respirano nelle emozioni condivise tra scrittore e paesaggio.
È percettibile un gioco che modella le parole creando un movimento, un transito magico che confonde il soggetto: terra?  Donna? O entrambe ?
Nel testo è il genere maschile a costituire l’ossatura descrittiva iniziale ed è rivolto al sole.
Nei passi successivi, l’attenzione sposta gli occhi e si fa terra, madre o compagna assumendo per tale ragione, il genere femminile.
Al termine di ogni poesia, si può pensare di decidere come scrittore e pensare di capire come lettore, cosa "CAVARE" da un magma di lettere, ma “cara penso a te” taglia e cambia gli scenari aprendo ovunque, nuove prospettive.
Non è importante cogliere il seminato frutto del seme, ma cogliere delle emozioni. In questo modo, una semina può dare frutti emotivi diversi ad ogni sguardo, sia esso rivolto ai tramonti africani o alle strisce di luce che, come spade, s’infilano nelle feritoie delle prigioni o nelle grate delle fabbriche.

giordan
   


venerdì 21 ottobre 2011

morte di un dittatore



molte immagini scorrono raffigurando la morte, la vittoria sul male.
La legge degli uomini è spietata: quando questi la usano sugli altri con il potere, quando il potere cade preda di altri poteri.
La giustizia è altra cosa, ma è un percorso complesso che richiede grande maturità, profondo senso etico. 
L'umanità non è pronta.
Nell'immagine sopra, la morte del dittatore.
non si vede nulla?
lo so.
Abbiamo già tutti visto molto e sputato sopra e puntato il dito e ...
è
un uomo
con il quale il giorno prima, si parlava, si facevano affari, si baciavano le mani.
Forse l'ipocrisia, è il peggiore male dell'umanità.
l'immagine è vuota, non ha il sangue, ma ...
trattiene nella sua uniformità il respiro, un respiro che non serve alla morte.
giordan  

morte di un dittatore

caduto a foglia d’autunno
rosso maculato
come stagione sposa in  continenti altri
grida
sputi
strette di mano e
i baci dei potenti

al suolo
un piccolo mucchio d’ossa vecchie e pelle adesso
arsa
dalla storia e dalla sabbia del deserto

corvi anglo francesi volano
attendono
il placare delle ire indotte
le ceneri fondere ai venti e le memorie anche

allora nessuno potrà sapere altro e i morti
saranno morti per sempre e tutto
ricomincerà su nuove parole 
giordan


martedì 18 ottobre 2011

dedicato a Marghera (estratto dal progetto derive)


tornerò anche domani marghera
scorticato come crosta di tronco
scorna a terra con la gamba stramba e
non comanda l’altra neanche
così
culo al suolo
coda in mezzo
goffo
sembra stancamente e volto al basso
osservi smunto gli attributi con in-sufficienza

le certezze sui dubbi
diventano croci
allora chiameresti la rubìna compagna al giogo
figlia di baco o condanna
lei può della vita ancora farne uso
sogno o
momento falso di reale presente

i giunchi piegano al vento
e i capelli di alghe uguale
a lei la promessa
sempre la stessa:
tornerò anche domani marghera
per goderne l’odore
anche se controvento 
o CONTRO
                   dio
giordano montanaro

dedicato a Federico Garcia Lorca


Federico García Lorca  ( Fuente Vaqueros, 5 giugno 1898 – Viznar, 19 agosto 1936)
A volte, le parole, sono appese ad un noi “pesante” che, sovente, non gode del superamento e trascina…
come stolide mandrie ai bordi di un arido pascolo, le speranze.
A volte però, la parola è sentimento, ideale, superamento e cammina oltre i limiti dell’uomo, trasforma e solca il campo. Non resta quando è stagione, che cogliere tra foglie e fiori, il dono che prima era seme.
Allora è frutto, acqua di fonte, pazienza e sforzo, il verso franco che non conta le asimmetrie, sfama e disseta.
Un verso che fa lotta e poi battaglia e conquista, ma non taglia,
non lascia esangue … cura e unge le ferite della superficialità umana.
Ecco all’ora sì, parole appese,ma ad un noi “pensante” e  non più
“pesante”.

giordan    

La notte non vuole venire
perché tu non venga
e io non possa andare.

Ma io andrò
benché un sole di scorpioni mi mangi la testa.

Ma tu verrai
con la lingua bruciata dalla pioggia di sale.

Il giorno non vuole venire
perché tu non venga
e io non possa andare.

Ma io andrò
portando ai rospi il mio garofano morsicato.

Ma tu verrai
nelle cupe cloache dell'oscurità.

Né la notte né il giorno non vogliono venire
perché io muoia per te
e tu per me.
Federico Garcia Lorca

un pensiero per Andrea Zanzotto



Si è spento oggi il poeta Andrea Zanzotto.
Un uomo che ha rappresentato un segno tangibile della Vera cultura italiana, fondata sulla pelle di coloro che hanno vinto le ingiustizie della guerra.
Voce, di un popolo e di un territorio, riscattati dalla guerra e dalle sue macerie ed ora, costretti a rifare i conti con un passato ancora "presente"

propongo una poesia che ritengo onesta traccia di un grande lavoro fatto da un grande uomo:

Da questa artificiosa terra-carne
esili acuminati sensi
e sussulti e silenzi,
da questa bava di vicende
- soli che urtarono fili di ciglia
ariste appena sfrangiate pei colli -
da questo lungo attimo
inghiottito da nevi, inghiottito dal vento,
da tutto questo che non fu
primavera non luglio non autunno
ma solo egro spiraglio
ma solo psiche,
da tutto questo che non è nulla
ed è tutto ciò ch'io sono:
tale la verità geme a se stessa,
si vuole pomo che gonfia ed infradicia.
Chiarore acido che tessi
i bruciori d'inferno
degli atomi e il conato
torbido d'alghe e vermi,
chiarore-uovo
che nel morente muco fai parole
e amori.

Poesia di Andrea Zanzotto

giovedì 4 agosto 2011

Pablo Neruda


Pablo Neruda (Parral, 12 luglio 1904  Santiago, 23 settembre 1973)
Neruda nacque da un impiegato delle ferrovie e da una insegnante che morì per la febbre lasciandolo orfano a solo un mese dal parto. Si trasferì con il padre a Temuco dove, dalle nuove nozze del genitore (con una donna che "Neftalì" chiamava Mamadre) , nove anni dopo nacque il fratellastro Rodolfo; aveva anche una sorella, di nome Laurita. Il giovane Neruda, soprannominato Neftalì dal secondo nome della madre, dimostrò un interesse per la scrittura e la letteratura avversato dal padre ma incoraggiato dalla futura vincitrice del Premio Nobel Gabriela Mistral, che fu sua insegnante durante il periodo di formazione scolastica. Il suo primo lavoro ufficiale come scrittore fu l'articolo "Entusiasmo y perseverancia", pubblicato ad appena 13 annisul giornale locale "La Mañana" diretto dallo zio adottivo. Nel 1920 iniziò ad utilizzare per le sue pubblicazioni lo pseudonimo di Pablo Neruda, con cui è tutt'oggi pressoché esclusivamente conosciuto, in modo di poter scrivere poesie senza che il padre(il quale riteneva quest'arte un'attività poco "rispettabile")lo scoprisse.
L'anno successivo, il 1921, si trasferì a Santiago per studiare la lingua francese e con l'intenzione iniziale di diventare in seguito insegnante, idea ben presto abbandonata per la poesia.
Nel 1923 pubblicò il suo primo volume in versi, Crepusculario, che fu apprezzato da scrittori come Alone, Raúl Silva Castro e Pedro Prado, seguito, a distanza di un anno, da Veinte poemas de amor y una canción desesperada, una raccolta di poesie d'amore, di stile modernista, e di stile erotico, motivo che spinse alcuni a rifiutarlo. Con questa raccolta è stato riconosciuto e tuttora essa è una delle sue opere maggiormente apprezzate.

Fonte biografia Wikipedia


Neruda rappresenta oggi una concreta “porta di comprensione”, capace di gridare un allarme preventivo.
La sfida della società italiana, ma direi europea oggi, è basata sulla capacità di cogliere l’allarme. Il rischio di tornare, di ripetere errori gravissimi come quelli commessi a cavallo del non lontano 1900, è una triste possibilità.
La poesia, credo sia un ottimo strumento per preservare l’umanità occidentale dai “neri” ritorni

Giordan





Il canto del generale del Cile
Eternità
Scrivo per una terra appena asciugata, ancora
fresca di fiori, polline e calcina,
scrivo per crateri che nelle cupole di gesso
replicano il loro  sferico vuoto presso la neve pura,
ho subito da dire la mia su ciò che reca
il vapore ferruginoso appena uscito dall'abisso,
parlo per le praterie che non sannoa ltro nome
che la piccola campanula del lichene o lo stame riarso
o l'acre macchia dove la cavalla brucia.
Da dove vengo, se non da queste recenti, azzurre
materie che s'aggrovigliano o s'increspano o s'escludono
o si spargono a gridi o si spandono sonnambule,
o s'arrampicano e formano il baluardo dell'albero,
o s'inabissano e avvincono la cellula del rame,
o balzano sul ramo dei fiumi, o soccombono
nella stirpe sepolta del carbone, o risplendono
nelle verdi oscurità dell'uva?
Nelle notti dormo come i fiumi, qualcosa
percorrendo senza tregua, rompendo, sopravanzando
la notte natatoria, sollevando le ore
verso la luce, palpando le
immagini che la calce ha esiliato, risalendo nel bronzo
fino alle cateratte da poco disciplinate, e in una strada
di fiumi tocco ciò che diffonde solamente
la rosa mai nata, l'emisfero inabissato.
La terra è una cattedrale di pallide palpebre,
eternamente unite e accumulate
in un ciclone di segmenti, in un sale di cupole,
in un colore finale d'autunno perdonato.
Voi non avete, non avete mai toccato nel cammino
ciò che la nuda stalattite produce,
la feta tra le lampade glaciali,
il grande freddo delle foglie nere,
non siete entrati con me nelle fibre
che la terra ha nascosto,
non avete dopo morti risalito
grano a grano le scale della sabbia
fino a dove le corone di rugiaga
coprono di nuovo una rosa aperta, 
voi non potete esistere senza spegnervi
con gli abiti usati della felicità.
Ma io sono il nembo metallico, l'anello
incatenato a spazi, a nuvole e a terreni,
colui che tocca precipitate e ammutolite acque,
e torna a sfidare l'infinita intemperie.

I. Inno e ritorno (1937)
Patria, patria mia, a te rendo il mio sangue.
Ma t'imploro, come implora la madre al figlio pieno di pianto.
Accogli questa cieca chitarra
e questa fronte sperduta.Partii a cercarti figli sulla terra,
partii a soccorrere caduti col tuo nome di neve,
partii a costruire una casa col tuo legno puro,
partii a recare la tua stella agli eroi feriti.
Adesso voglio dormire nella tua sostanza.
Dammi la tua chiara notte di corde penetranti,
la tua notte di nave, la tua stellata statura.
Patria mia: voglio cambiare d'ombra.
Patria mia: voglio mutre di rosa.
Voglio allacciare il braccio alla tua esile vita
e sedermi sulle tue pietre calcinate dal mare,
per fermare il grano e osservarlo all'interno.
Io sceglierò la sottile flora del nitrato,
filerò lo stame glaciale della campana,
e guardando alla tua illustre e solitaria spuma
un ramo litorale tesserò alla tua bellezza.
Patria, patria mia,
tutta accerchiata d'acqua combattente
e di neve combattuta,
in te s'unisce l'aquila allo zolfo,
e nella tua antartica mano d'ermellino e zaffiro
una goccia di pura luce umana
risplende e incendia il cielo nemco.
Serba la tua luce, oh patria, mantieni
la tua tenace spiga di speranza
in mezzo alla paurosa aria cieca.
Nella tua remota terra è caduta tutta quest'ardua luce,
questa fatilità degli uomini,
che ti spinge a difendere un fiore misterioso,
solo, nell'immensità dell'America addormentata.
II. Voglio tornare nel Sud (1941)
Malato a Veracruz, ricordo un giorno
del Sud, la mia terra, un giorno d'argento
come un rapido pesce nell'acqua del cielo.
Loncoche, Lonquimay, Carahue, dall'alto
seminati, avvolti di silenzio e di radici,
assisi nei loro troni di cuoio e di legno.
Il Sud è un cavallo gettato a picco,
incoronato d'alberi lenti e di rugiada,
quando alza il verde muso cadono le gocce,
l'ombra della sua coda bagna il grande arcipelago
e nel suo intestino cresce il carbone adorato.
Mai più, dimmi, ombra, mai più, dimmi, mano,
mai più, dimmi, piede,porta, gamba, battaglia,
scompiglierai la selva, la strada, la spiga,
la nebbia, il freddo, e quello che, azzurro, formava
ciascuno dei tuoi passi di continuo consumati?
Cielo, lasciami andare un giorno di stella in stella
pestando luce ed esplosivo, distruggendo il mio sangue
fino a giungere al nido della pioggia!
Vogliio andare dietro il legname, giù lungo il fragrante
fiume Toltén, voglio uscire dalle segherie,
entrare nelle cantine con i piedi inzuppati,
farmiguidare dalla luce del nocciolo elettrico,
sdraiarmi vicino all'escremento delle vacche,
morire e rivivere mordendo grano.
Oceano, portami un giorno del Sud, un giorno aggrappato alle tue onde,
un giorno d'albero madido, porta un vento
azzurro polare alla mia fredda bandiera!