giovedì 4 agosto 2011

Pablo Neruda


Pablo Neruda (Parral, 12 luglio 1904  Santiago, 23 settembre 1973)
Neruda nacque da un impiegato delle ferrovie e da una insegnante che morì per la febbre lasciandolo orfano a solo un mese dal parto. Si trasferì con il padre a Temuco dove, dalle nuove nozze del genitore (con una donna che "Neftalì" chiamava Mamadre) , nove anni dopo nacque il fratellastro Rodolfo; aveva anche una sorella, di nome Laurita. Il giovane Neruda, soprannominato Neftalì dal secondo nome della madre, dimostrò un interesse per la scrittura e la letteratura avversato dal padre ma incoraggiato dalla futura vincitrice del Premio Nobel Gabriela Mistral, che fu sua insegnante durante il periodo di formazione scolastica. Il suo primo lavoro ufficiale come scrittore fu l'articolo "Entusiasmo y perseverancia", pubblicato ad appena 13 annisul giornale locale "La Mañana" diretto dallo zio adottivo. Nel 1920 iniziò ad utilizzare per le sue pubblicazioni lo pseudonimo di Pablo Neruda, con cui è tutt'oggi pressoché esclusivamente conosciuto, in modo di poter scrivere poesie senza che il padre(il quale riteneva quest'arte un'attività poco "rispettabile")lo scoprisse.
L'anno successivo, il 1921, si trasferì a Santiago per studiare la lingua francese e con l'intenzione iniziale di diventare in seguito insegnante, idea ben presto abbandonata per la poesia.
Nel 1923 pubblicò il suo primo volume in versi, Crepusculario, che fu apprezzato da scrittori come Alone, Raúl Silva Castro e Pedro Prado, seguito, a distanza di un anno, da Veinte poemas de amor y una canción desesperada, una raccolta di poesie d'amore, di stile modernista, e di stile erotico, motivo che spinse alcuni a rifiutarlo. Con questa raccolta è stato riconosciuto e tuttora essa è una delle sue opere maggiormente apprezzate.

Fonte biografia Wikipedia


Neruda rappresenta oggi una concreta “porta di comprensione”, capace di gridare un allarme preventivo.
La sfida della società italiana, ma direi europea oggi, è basata sulla capacità di cogliere l’allarme. Il rischio di tornare, di ripetere errori gravissimi come quelli commessi a cavallo del non lontano 1900, è una triste possibilità.
La poesia, credo sia un ottimo strumento per preservare l’umanità occidentale dai “neri” ritorni

Giordan





Il canto del generale del Cile
Eternità
Scrivo per una terra appena asciugata, ancora
fresca di fiori, polline e calcina,
scrivo per crateri che nelle cupole di gesso
replicano il loro  sferico vuoto presso la neve pura,
ho subito da dire la mia su ciò che reca
il vapore ferruginoso appena uscito dall'abisso,
parlo per le praterie che non sannoa ltro nome
che la piccola campanula del lichene o lo stame riarso
o l'acre macchia dove la cavalla brucia.
Da dove vengo, se non da queste recenti, azzurre
materie che s'aggrovigliano o s'increspano o s'escludono
o si spargono a gridi o si spandono sonnambule,
o s'arrampicano e formano il baluardo dell'albero,
o s'inabissano e avvincono la cellula del rame,
o balzano sul ramo dei fiumi, o soccombono
nella stirpe sepolta del carbone, o risplendono
nelle verdi oscurità dell'uva?
Nelle notti dormo come i fiumi, qualcosa
percorrendo senza tregua, rompendo, sopravanzando
la notte natatoria, sollevando le ore
verso la luce, palpando le
immagini che la calce ha esiliato, risalendo nel bronzo
fino alle cateratte da poco disciplinate, e in una strada
di fiumi tocco ciò che diffonde solamente
la rosa mai nata, l'emisfero inabissato.
La terra è una cattedrale di pallide palpebre,
eternamente unite e accumulate
in un ciclone di segmenti, in un sale di cupole,
in un colore finale d'autunno perdonato.
Voi non avete, non avete mai toccato nel cammino
ciò che la nuda stalattite produce,
la feta tra le lampade glaciali,
il grande freddo delle foglie nere,
non siete entrati con me nelle fibre
che la terra ha nascosto,
non avete dopo morti risalito
grano a grano le scale della sabbia
fino a dove le corone di rugiaga
coprono di nuovo una rosa aperta, 
voi non potete esistere senza spegnervi
con gli abiti usati della felicità.
Ma io sono il nembo metallico, l'anello
incatenato a spazi, a nuvole e a terreni,
colui che tocca precipitate e ammutolite acque,
e torna a sfidare l'infinita intemperie.

I. Inno e ritorno (1937)
Patria, patria mia, a te rendo il mio sangue.
Ma t'imploro, come implora la madre al figlio pieno di pianto.
Accogli questa cieca chitarra
e questa fronte sperduta.Partii a cercarti figli sulla terra,
partii a soccorrere caduti col tuo nome di neve,
partii a costruire una casa col tuo legno puro,
partii a recare la tua stella agli eroi feriti.
Adesso voglio dormire nella tua sostanza.
Dammi la tua chiara notte di corde penetranti,
la tua notte di nave, la tua stellata statura.
Patria mia: voglio cambiare d'ombra.
Patria mia: voglio mutre di rosa.
Voglio allacciare il braccio alla tua esile vita
e sedermi sulle tue pietre calcinate dal mare,
per fermare il grano e osservarlo all'interno.
Io sceglierò la sottile flora del nitrato,
filerò lo stame glaciale della campana,
e guardando alla tua illustre e solitaria spuma
un ramo litorale tesserò alla tua bellezza.
Patria, patria mia,
tutta accerchiata d'acqua combattente
e di neve combattuta,
in te s'unisce l'aquila allo zolfo,
e nella tua antartica mano d'ermellino e zaffiro
una goccia di pura luce umana
risplende e incendia il cielo nemco.
Serba la tua luce, oh patria, mantieni
la tua tenace spiga di speranza
in mezzo alla paurosa aria cieca.
Nella tua remota terra è caduta tutta quest'ardua luce,
questa fatilità degli uomini,
che ti spinge a difendere un fiore misterioso,
solo, nell'immensità dell'America addormentata.
II. Voglio tornare nel Sud (1941)
Malato a Veracruz, ricordo un giorno
del Sud, la mia terra, un giorno d'argento
come un rapido pesce nell'acqua del cielo.
Loncoche, Lonquimay, Carahue, dall'alto
seminati, avvolti di silenzio e di radici,
assisi nei loro troni di cuoio e di legno.
Il Sud è un cavallo gettato a picco,
incoronato d'alberi lenti e di rugiada,
quando alza il verde muso cadono le gocce,
l'ombra della sua coda bagna il grande arcipelago
e nel suo intestino cresce il carbone adorato.
Mai più, dimmi, ombra, mai più, dimmi, mano,
mai più, dimmi, piede,porta, gamba, battaglia,
scompiglierai la selva, la strada, la spiga,
la nebbia, il freddo, e quello che, azzurro, formava
ciascuno dei tuoi passi di continuo consumati?
Cielo, lasciami andare un giorno di stella in stella
pestando luce ed esplosivo, distruggendo il mio sangue
fino a giungere al nido della pioggia!
Vogliio andare dietro il legname, giù lungo il fragrante
fiume Toltén, voglio uscire dalle segherie,
entrare nelle cantine con i piedi inzuppati,
farmiguidare dalla luce del nocciolo elettrico,
sdraiarmi vicino all'escremento delle vacche,
morire e rivivere mordendo grano.
Oceano, portami un giorno del Sud, un giorno aggrappato alle tue onde,
un giorno d'albero madido, porta un vento
azzurro polare alla mia fredda bandiera!